Una città che non ama sé stessa

25 dicembre 2010, Natale. Sono le 9.30 e decido di uscire per far colazione in centro.

A fianco del portoncino del bellissimo palazzo del 1700 in cui abito, edificato dai Conti Priante, nobili consorti veneziani, un pezzo di pino giace abbandonato. Sul marciapiedi vi sono alcuni pacchetti di sigarette schiacciati, qualche mozzicone ed una o due cartacce.

Per strada non c’è nessuno. Mi incammino verso la piazza (distiamo poche centinaia di metri), ma la sensazione non mi abbandona. Vuoto, in giro pochi vecchietti.

All’ingresso della piazza del 1500 (in casa ho l’elenco con i nomi di tutti i proprietari del tempo), un pino natalizio è decorato solo con gli striscioni che ricordano che è un dono della Pro Loco. Le luminarie sono spente, le vetrine dei negozi oscurate, persino molte serrande sono abbassate. Dei 6 bar circostanti la piazza, solo 2 sono aperti.

Natale? Tutti sono a casa in famiglia? No, il motivo non è questo, dato che è così tutte le domeniche mattine.

Vivo in una stupenda città le cui antiche vestigia testimoniano un glorioso passato, da quando nel 1200 ospitava re e papi di passaggio e nei secoli successivi fu sede di tante famiglie di antiche origini patrizie. Mocenigo, Soranzo, Balbi Venier, Contarini, Pisani, Trissino, Da Porto, hanno qui un palazzo o una Fabrica, Palladio è presente con sue costruzioni, c’è persino la villa di un Principe, ma ormai si respira l’aria di uno splendido sepolcro lasciato a spettrale ricordo, vuoto e senza vita.

Vivo in una città che non ama sé stessa e che ha deciso di morire.

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